Giovanni Paolo II Santo e la teologia della liberazione della donna

MariaTeresaRusso
Maria Teresa Russo -- Italia


1. Due Papi, un’unica passione: il valore della persona umana

Per indicare i giovani nati intorno al 1989 qualcuno ha coniato il termine di “John Paul II generation”[1]. A circa 25 anni di distanza quella generation, ormai adulta, assiste a una canonizzazione che non è azzardato definire storica sia per la rapidità e il consenso pressoché unanime, sia per l’accostamento di due figure epocali nella storia della Chiesa. E’ infatti fuori discussione che entrambi i pontificati, quello di Giovanni XXIII e quello di Giovanni Paolo II, abbiano prodotto profonde trasformazioni nel cattolicesimo di fine Novecento. Non soltanto in relazione all’immagine del papato, indubbiamente rafforzata e “mondializzata”, ma anche in rapporto alle questioni più scottanti di fine millennio, che sono state intercettate e interpretate alla una luce di una fede rinnovata. Tutto ciò ha smentito quelle indagini sociologiche che predicevano una società occidentale diretta verso la totale secolarizzazione[2], dando impulso invece a una progressiva rinascita di interesse per il sacro e per la religione[3]. Un processo senz’altro disomogeneo, ma innegabile, in cui le due figure di pontefici hanno rivestito senz’altro un ruolo di primo piano. Mi soffermerò, in particolare, sul contributo di Giovanni Paolo II.

Tra i tanti articoli apparsi sui quotidiani italiani e stranieri all’indomani della morte di Giovanni Paolo II, quello a firma di Valerio Castronovo ha messo in luce non solo il risveglio di religiosità prodotto dalla figura carismatica di Karol Wojtyla e il notevole aumento di prestigio del papato nel mondo, ma anche la sintesi di “rinnovamento” e di “restaurazione” operata dal pontefice[4]. E’ singolare, infatti, che un papa che si è mosso nel solco della più squisita tradizione abbia mosso intellettuali “laici” a giudicare molti dei suoi interventi come “rivoluzionari”. Spesso questo si è attribuito alla capacità di Giovanni Paolo II di comunicare e quindi di presentare diversamente il cristianesimo. Ciò è innegabile, ma è solo una parte della verità. Ad uno sguardo più attento, il motivo radica più in profondità: esso va ricercato nella ferma convinzione di Karol Wojtyla che il fattore religioso dovesse essere considerato come l’elemento decisivo della storia umana. Da qui il suo sforzo di proporre il messaggio cristiano nella sua fondamentale carica umanizzante, recuperando la centralità che ha in esso la persona.

In un’intervista a Jas Gawronski del 1993, Wojtyla, ridimensionando il suo ruolo nel crollo del regimi totalitari dell’Est, aveva invece sottolineato il ruolo che aveva avuto il cristianesimo in quanto tale, il suo contenuto e la difesa della persona umana e dei suoi diritti[5].

E l’anno dopo, nel libro “Varcare la soglia della speranza”, a Vittorio Messori aveva risposto. “La mia attenzione alla persona e all’atto non è affatto nata sul terreno della polemica con il marxismo o, almeno, non è nata in funzione di tale polemica. L’interesse per l’uomo come persona era presente in me da lunga data”[6].

In questa prospettiva, si comprende perché tutti gli insegnamenti di Giovanni Paolo II abbiano avuto un preciso sfondo antropologico e quanto la considerazione di questo elemento sia essenziale per la comprensione della portata culturale del suo pontificato. Un’analisi che si limitasse ad enfatizzare gli aspetti di carattere politico o strategico di quel pontificato, peraltro di notevole interesse, non coglierebbe lo spessore di un evento la cui lunga durata ha segnato profondamente non solo la storia del cattolicesimo, ma la storia universale.

Nell’analisi filosofica ancor prima che teologica condotta da Giovanni Paolo II su alcune questioni già studiate negli anni giovanili si può scorgere sullo sfondo una finalità ben precisa: superare la divaricazione tra teocentrismo e antropocentrismo, alla base della moderna separazione tra religione cattolica e cultura. Determinante in tale divorzio è stata la cosiddetta “svolta antropologica” della modernità, che, in nome del primato dell’umano, aveva finito per escludere il divino dall’orizzonte della storia[7].

Quest’opera di ricomposizione doveva comportare anche un lavoro ermeneutico: smontare alcuni stereotipi attribuiti al messaggio cristiano da una certa cultura della modernità e liberarlo da tali fraintendimenti storici, per metterne in luce tutta la carica umanizzante e l’autentico contenuto. Particolarmente significativo è stato il suo insegnamento riguardante due stereotipi: quello del “cattolicesimo ostile al corpo” e quello del “cattolicesimo misogino”.

Questa liberazione dai fraintendimenti trova espressione compiuta nel corso di tutto il papato, in particolare con dei momenti “forti”, come la Lettera apostolica Mulieris Dignitatem del 1988 o la Lettera alle donne del 1995. Ma va anche ricordato il ciclo di udienze tenuto tra il 1979 e il 1980, nel quale papa Wojtyla ha inteso mostrare che il significato della corporeità e della differenza tra uomo e donna sono stati sempre considerati in ottica positiva dalla Chiesa cattolica, perché rivestono un ruolo centrale nell’antropologia personalistica di ispirazione biblica. Questo sforzo, pur non mancando di risposte polemiche, ha condotto anche molti intellettuali “laici” a una revisione di certe posizioni, riconoscendo al cristianesimo un’essenziale funzione umanizzante all’interno della cultura[8]. Come ha giustamente osservato il giornalista George Weigel, Giovanni Paolo II “ha sfidato concezioni delle dinamiche della storia universalmente accettate e ha dimostrato che la storia è mossa dalla cultura, e che al centro della cultura c’è il culto, la religione”[9].

2. Le udienze del mercoledì tra il 1979 e il 1980 e la proposta di un’antropologia “adeguata”

Fin dagli inizi del suo pontificato Giovanni Paolo II ha dato un’impronta molto significativa a quel mezzo di comunicazione così particolare costituito dall’“udienza generale del mercoledì”, contribuendo anche a che avesse una diffusione ben al di là del mondo dei fedeli. Nata con Paolo VI nel 1963, precisamente il 13 luglio, l’udienza aveva avuto luogo inizialmente di sabato, come riflessione su tematiche occasionali. Ben presto, le udienze erano proseguite di mercoledì, per i restanti 15 anni del pontificato di Paolo VI, strutturandosi man mano come un ciclo di discorsi collegati tra loro, tanto da divenire un vero e proprio mezzo di catechesi a tema[10]. Successivamente, Giovanni Paolo I aveva dato seguito a questa consuetudine, seppure per il breve tempo che gli fu possibile, trasformando ogni udienza in un’autentica lezione di catechismo.

Con Wojtyla l’udienza diviene, sia per la durata dei cicli che per il tono dei discorsi, una sorta di corso monografico che ha tutto il rigore dell’insegnamento universitario e l’ampiezza dell’argomentazione filosofico-teologica. Di particolare rilevanza il ruolo che ha avuto il lungo ciclo che egli tenne all’indomani della sua elezione a pontefice, precisamente dal 5 settembre 1979 al 28 novembre 1984, noto sotto il nome di “discorsi sulla teologia del corpo”. Si tratta di ben 129 discorsi, che presentano significative novità di contenuto e di stile. 

La prima innovazione sta nel fatto che il discorso antropologico, quello etico e quello dogmatico si intrecciano e si implicano a vicenda, mentre l’impostazione tradizionale prevedeva una rigida separazione di ambiti. Il centro è l’uomo, la persona, studiata attraverso il metodo fenomenologico agganciato ad una prospettiva metafisica. Appare essenziale lo sforzo di ricavare dalla Sacra Scrittura tutto il contenuto antropologico che essa contiene, in un lavoro dove Wojtyla utilizza anche il metodo tipico dell’ermeneutica filosofica.

La seconda novità è rappresentata dallo stile del tutto inconsueto, a causa dell’uso di una ricca terminologia filosofica, risultante da una sintesi tra la metafisica classica, aristotelico-tomista e la fenomenologia, specialmente quella di Max Scheler, sul quale il giovane Wojtyla aveva svolto nel 1953 la sua tesi di dottorato[11].

Nel ciclo di udienze sulla teologia del corpo, non è più il filosofo Wojtyla, ma il pontefice Giovanni Paolo II ad esprimere quella che non è la sua visione dell’uomo, ma il contenuto del messaggio cristiano. Tuttavia, è evidente lo sforzo di conciliare l’uno e l’altro aspetto, per mettere in luce l’intrinseca razionalità dell’antropologia cristiana. La meta è realizzare un lavoro di scavo all’interno del messaggio cristiano, per mostrare che quella che vi è contenuta è l’“antropologia adeguata” -come egli la definisce-, vale a dire una visione che cerca di comprendere e di interpretare l’uomo in ciò che ha di veramente umano, in opposizione a quelle concezioni segnate dal riduzionismo, che lo collocano al livello del resto della natura[12].

Questa antropologia è in singolare relazione con l’etica, come precisa lo stesso pontefice, giacché una “antropologia costruita sui significati perenni dell’esistenza umana”[13] si richiama necessariamente a un éthos: “adeguata è l’antropologia costruita sui significati perenni dell’esistenza umana, delineando così la piena immagine di uomo in cui ogni uomo deve entrare o deve realizzare se stesso”[14]. Esiste una profonda interdipendenza, una reciproca implicazione tra antropologia ed etica: Wojtyla intende così implicitamente rispondere a quel tentativo della modernità di dedurre un’etica in modo procedurale, sulla base di astratti principi di giustizia, senza una fondazione ontologica trascendente. Se il dover essere dell’uomo non trovasse nell’essere la sua giustificazione, diverrebbe una norma estrinseca oppure un semplice limite, in ogni caso un freno alla realizzazione dell’umano. Sganciata dall’antropologia, l’etica diverrebbe un discorso su ciò che è giusto, ma non su ciò che è buono.

In questa prospettiva, radicata nella verità della creazione, l’antropologia si configura come la verità dell’essere dell’uomo, l’etica come la verità del bene dell’uomo e l’éthos come l’etica che diviene praxis nell’agire dell’uomo[15].

Se quella che si delinea nel ciclo di udienze è decisamente un’antropologia teologica, ossia una concezione dell’uomo, della sua natura e del suo destino elaborata alla luce della rivelazione cristiana, è anche vero che Giovanni Paolo II intende offrire una chiave di lettura per la comprensione dell’essere umano non rivolta soltanto al credente. Per questo motivo, anche se il genere letterario del ciclo di udienze sulla teologia del corpo potrebbe essere definito quello di una meditazione biblica ed il punto di partenza è immediatamente il dato rivelato, questo viene confrontato con l’universale esperienza che ciascun uomo ha di se stesso, che viene illuminata e resa intellegibile proprio grazie alla rivelazione. Lo sforzo di elaborazione filosofica e la ricerca di un linguaggio più aderente alla sensibilità culturale attuale rappresentano, pertanto, il tentativo di mostrare all’uomo moderno quanto il messaggio cristiano sia la risposta alle inquietudini più profonde del suo cuore.

3. La Chiesa cattolica nemica del corpo? La rimozione di uno stereotipo

L’innovativa teologia del corpo elaborata da Giovanni Paolo II costituisce la risposta più diretta all’accusa di manicheismo, di disprezzo del corpo e di inibizione della sessualità mossa alla Chiesa cattolica da parte di una certa modernità. Come ha osservato George Weigel, in essa “il Papa sostiene che la nostra sessualità è più importante di quanto non immagini la rivoluzione sessuale”[16]. L’affermazione è paradossale, ma esatta: già la sola espressione teologia del corpo appare audace e viene a contraddire di per se stessa ogni pretesa di spiritualismo.

A partire dall’universale esperienza di sé che ogni uomo ha del e attraverso il proprio corpo, Giovanni Paolo II mostra come il racconto biblico contenuto nei primi due capitoli della Genesi riveli tutta la dignità e il valore del corpo, così come si manifesta nella sessualità e nel linguaggio della nudità. Si tratta di una riflessione che parte dalla nozione fenomenologica di “significato del corpo”, che non si riferisce solo all’autocoscienza corporea –il sapere di avere un corpo-, ma anche alla percezione del valore del proprio corpo. Con parole di Giovanni Paolo II: “Quando parliamo del significato del corpo, facciamo anzitutto riferimento alla piena coscienza dell’essere umano, ma intendiamo anche ogni esperienza effettiva del corpo nella sua mascolinità, femminilità e, in ogni caso, la costante predisposizione a tale esperienza. Il significato del corpo non è soltanto qualcosa di concettuale. […] E’ ad un tempo ciò che determina l’atteggiamento: è il modo di vivere del corpo”[17].

Scoprire il significato di un determinato aspetto della vita umana comporta, dunque, percepire il valore oggettivo e immanente che vi è contenuto, per poi riconoscere l’ordine che tale valore ha con altri valori e comportarsi di conseguenza. Tutto ciò ha come conseguenza la presa d’atto del carattere personale, cioè esistenziale e biografico, di ogni nostra esperienza che chiama in causa il corpo: essa non sarà mai un semplice fatto, ma sempre un fatto portatore di un significato e dunque di un valore. Osserva Giovanni Paolo II: “In questo modo il corpo umano acquista un significato completamente nuovo, che non può essere posto sul piano della rimanente percezione esterna del mondo. Esso, infatti, esprime la persona nella sua concretezza ontologica ed esistenziale, che è qualcosa di più dell’ ‘individuo’, e quindi esprime l’ ‘io’ umano personale, che fonda dal di dentro la sua percezione ‘esteriore’”[18].

Esiste, dunque, un éthos del corpo che, in termini filosofici, si può esprimere come l’ordine di valori che si scopre nel corpo proprio e altrui[19], ad esempio, nella propria sessualità e che, in termini teologici, si configura come il riflesso del disegno originario di Dio sull’uomo. “Non possiamo considerare il corpo come una realtà oggettiva al di fuori della soggettività personale dell'uomo, degli esseri umani: maschi e femmine. Quasi tutti i problemi dell' ‘éthos del corpo’ sono legati contemporaneamente alla sua identificazione ontologica quale corpo della persona, e al contenuto e qualità dell'esperienza soggettiva, cioè al tempo stesso del ‘vivere’ sia del proprio corpo sia nelle relazioni interumane, e in particolare in questa perenne relazione ‘uomo-donna’ ”[20].

In questo disegno, l’essere umano, creato maschio e femmina “ad immagine e somiglianza di Dio”, sperimenta attraverso la nudità originaria la possibilità di una piena comunicazione interpersonale, perché il corpo parla il linguaggio del dono. Solo successivamente, perduta l’innocenza originaria, sentirà la necessità di difendersi dallo sguardo dell’altro e quindi di coprirsi, poiché da quel momento comincia a darsi la possibilità che quel linguaggio venga frainteso o violato. 

Questa prospettiva acquista una particolare rilevanza culturale se applicata alla questione del rispetto che si deve sempre al corpo come espressione della persona, alla necessità di non usarlo mai come un oggetto. E’ su questi temi che Giovanni Paolo II intende manifestare la potente carica umanizzante che il messaggio cristiano ha sulle diverse forme di espressione della cultura.

Significative a questo proposito sono le udienze dedicate al corpo umano “tema” dell’opera d’arte[21] dove appare fondamentale il richiamo al significato stesso del corpo, che l’arte non può ignorare: “Le opere della cultura, specialmente dell'arte, fanno sì che quelle dimensioni di ‘essere corpo’ e di ‘sperimentare il corpo’, si estendano, in certo senso, al di fuori di questi uomini vivi. L'uomo si incontra con la ‘realtà del corpo’ e ‘sperimenta il corpo’ anche quando esso diventa un tema dell'attività creativa, un'opera d'arte, un contenuto della cultura”[22]. E’ soprattutto l’arte visiva ad avere come tema il corpo umano e quindi a dover essere consapevole del rischio di oggettivazione a cui può esporlo. La bellezza di un corpo umano vivo, infatti, è diversa dalla bellezza e dal significato che acquista un corpo umano riprodotto, sempre esposto al rischio dell’anonimato, ancora più evidente nei prodotti della cultura di massa.

Se il corpo come oggetto dell’opera d’arte non è solo una questione di natura estetica, ma anche etica, è dunque fondamentale la responsabilità dell’artista o del pubblicitario: vi sono dei limiti da rispettare, perché sono fissati dal significato stesso del corpo umano, inalienabile nel suo valore personale.

4. L’antropologia del femminile di Wojtyla al di là dei femminismi

Molti studiosi hanno riconosciuto che Giovanni Paolo II, ben consapevole dei fraintendimenti che gravavano sul messaggio cristiano in relazione alla dignità della donna, ha considerato la questione della specificità femminile molto più seriamente di alcune frange dello stesso femminismo[23]. Due atti del suo pontificato –La Lettera apostolica Mulieris Dignitatem, del 15 agosto 1988 e la Lettera alle donne, del 1994– mettono in luce un’attenzione privilegiata per un’antropologia del femminile, sviluppando quelle considerazioni già implicite nelle udienze sulla teologia del corpo.

All’indomani della pubblicazione della Mulieris Dignitatem, l’intellettuale “laica” Maria Antonietta Macciocchi scriveva per il “Corriere della Sera” un articolo dal titolo significativo:"Papa Wojtyla crede nel genio delle donne"[24]. E, dopo la morte di Giovanni Paolo II, ha scritto ancora: “L'originalità del pensiero di questo Papa verso le donne è come una linea maestra dritta come una spada”[25].

Il punto di partenza per la riflessione sulla donna e sul suo ruolo è ancora una volta il disegno divino, che rende ancora più significativo il valore della differenza tra i sessi: “essere donna non è un capriccio della biologia, né un costrutto culturale, è l’immagine di una profonda verità sulla condizione umana e sull’intenzione del Creatore verso il mondo”[26].

Giovanni Paolo II ha infatti messo in luce, partendo ancora una volta dalla Genesi, la dignità piena della donna, alla pari dell’uomo –“ambedue sono esseri umani, in egual grado l’uomo e la donna, ambedue creati a immagine di Dio”[27]-; inoltre ha posto l’accento sull’ “unità dei due”, per cui “l’uomo e la donna sono chiamati sin dall’inizio ad esistere reciprocamente uno per l’altro”[28]. Ha anche condannato tutte le forme di asservimento che storicamente si sono prodotte nei confronti della donna, anche da parte di una civiltà cristiana, ribadendo che “la donna non può diventare ‘oggetto’ di ‘dominio’ e di ‘possesso’ maschile”[29].

Di particolare originalità l’espressione “genio femminile”, con cui Giovanni Paolo II conclude il documento e che riprenderà, ampliandola, nella Lettera alle donne inteso come quella capacità che “assicura la sensibilità per l’uomo in ogni circostanza: per il fatto che è uomo”, capacità di cui la nostra epoca, segnata da un progresso della scienza e della tecnica unilaterale, che favorisce alcuni, mentre emargina altri, ha particolarmente bisogno[30]. Il “genio femminile”comporta innanzitutto l’attenzione alla persona concreta che ogni donna madre e sorella è capace di dare in famiglia, poiché la dignità della donna “si collega intimamente con l’amore che ella riceve a motivo stesso della sua femminilità ed altresì con l’amore che a sua volta dona”[31].

Appare molto chiaro il legame che viene istituito non tanto tra dignità e potere, che del resto ricalcherebbe un modello tipicamente maschile, ma tra dignità e servizio o, per dirla in termini più attuali, tra dignità e cura. Sembrerebbe il contrario di quanto proposto dai moderni femminismi dell’empowerment, ma in realtà si tratta di una promozione della donna ben più radicale e duratura. Se “la donna è forte per la consapevolezza dell’affidamento”, in quanto dalla sua capacità di cura, dalla trama di relazioni che lei riesce a tessere, dipende in modo particolare la qualità dei legami tra gli uomini, ogni lotta per liberarla dall’affidamento, mentre la alleggerisce, contemporaneamente la lascia più debole e più vuota.

Sorta nell’ambito dei dibattiti relativi alla conferenza ONU di Pechino del 1995, la Lettera alle donne, ha inteso rispondere alle esigenze di uguaglianza da parte delle donne di tutto il mondo, ma senza cadere nell’inganno di un femminismo antifemminile. Come è stato osservato, “la prospettiva offerta da Giovanni Paolo II fa terra bruciata intorno alla visione individualista del femminismo storico, che ha preteso radicare la dignità della donna nelle ceneri del suo rapporto con l’uomo. Più che mai risalta la netta contrapposizione (costruttiva e non conflittuale) tra l’impostazione della Lettera e l’ideologia che ha distrutto teoricamente ed ha attentato praticamente alla relazione uomo-donna”[32].

Non si tratta, tuttavia, di una pretesa incomunicabilità tra Chiesa e pensiero moderno: si può dire, anzi, che forse Giovanni Paolo II abbia anticipato tante perplessità e ripensamenti del cosiddetto postfemminismo, che avrebbe condotto anche pensatrici “storiche” a correggere molte posizioni radicali a proposito di famiglia e di maternità e a far risuonare voci nuove nel coro delle rivendicazioni femminili[33]. La riscoperta della differenza femminile e della cura, anche nella sua valenza sociale e politica, sembra aver dato ragione alla visione del pontefice, che aveva manifestato fin da giovane sacerdote quella profonda fiducia nelle risorse della persona, uomo o donna che sia, che gli faceva scrivere a Teresa Miesowicz: “I valori delle persone sono diversi e si presentano in diverse configurazioni. La grande conquista è sempre vedere valori che altri non vedono e affermarli”[34]. 

Qualche anno dopo la Lettera alle donne assistiamo a un’altra presa di posizione forte a favore della donna da parte di Papa Wojtyla: la proclamazione nel 1999 di due donne patrone d’Europa, Santa Brigida e Santa Teresa Benedetta della Croce, al secolo Edith Stein. Due figure molto diverse e distanti nel tempo, che però hanno un tratto comune: non appartengono alla cultura mediterranea. A differenza di Teresa d’Avila e Caterina da Siena, esse sono figlie della cultura nord europea; inoltre Edith Stein è particolarmente significativa in quanto di stirpe ebraica e in quanto filosofa, una donna intellettuale.

  D’altra parte, andando indietro negli anni, nella produzione poetica del giovane Wojtyla si rintraccia un motivo ricorrente: l’interesse per le figure femminili dei Vangeli per come appaiono nei loro incontri con Gesù, donne liberate e capaci a loro volta di liberare. In una conferenza tenuta a Cracovia nel 1962 a un gruppo di studenti, egli commentava: “Ciò che colpisce, quando osserviamo le donne che circondano il Cristo, è soprattutto il fatto che tutte queste donne, a contatto con Gesù, acquistano una libertà interiore. E’ altresì significativo che intorno a Gesù vi siano molte donne peccatrici. Una di queste è la Samaritana, la cui conversazione è riportata da Giovanni nel suo Vangelo… Gesù l’ha liberata attraverso la verità, attraverso la verità sulla sua condizione, attraverso la verità sulla sua vita e ha conquistato la sua fiducia. Ci deve essere stato qualcosa nel modo in cui le ha parlato, perché non l’ha umiliata, indotta alla vergogna o degradata, non l’ha maltrattata, ma al contrario, l’ha sollevata”[35].

Sin da giovane, Wojtyla era stato affascinato dal personaggio della “Veronica”, alla quale negli anni ’50 aveva dedicato una poesia, dove la interpreta come il simbolo di chi, per amore di Cristo, soccorre il sofferente. Veronica fa da controfigura al Cireneo: questi è costretto a portare la Croce e inizialmente non ne riconosce il significato redentivo, quella, invece, va incontro spontaneamente a Cristo per asciugargli il volto con un panno in un gesto di conforto. E con quel gesto – squisitamente femminile – non soltanto riceve la forza sanante della Croce, ma diventa anche capace di testimoniarla ad altri. Scrive nella poesia Veronica: “Il panno che fra le tue mani si oscura attira a sé tutta l’inquietudine del mondo\ Ogni creatura chiederà della fonte feconda che da te sgorga, Veronica sorella \  La Redenzione cercava la tua forma per entrare nell’inquietudine di ogni uomo”[36].  

Ritroveremo la Veronica in una delle meditazioni  degli esercizi spirituali predicati in Vaticano dal cardinale Wojtyla nel 1976 e ancora nel commento scritto nel 2000 alla sesta stazione della Via Crucis, dove  l’episodio, che peraltro non compare nei Vangeli, è l’occasione per sottolineare lo speciale contenuto cristologico del gesto di sollievo: Cristo imprime la sua somiglianza su ogni atto di carità verso i sofferenti, come aveva fatto col lino della Veronica. “Ecco come ogni atto buono, ogni gesto di vero amore verso il prossimo rafforza in chi lo compie la somiglianza col Redentore del mondo. Gli atti d’amore non passano. Ogni gesto di bontà, di comprensione, di servizio lascia nel cuore dell’uomo un segno indelebile, che lo rende più simile a colui che ‘spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo’ (Fil 2,7)”[37].

E’ recente l’ammissione da parte di molte femministe di un colossale equivoco: reclamando per la donna spazi di potere, si sono pericolosamente ridotti nell’intera società gli spazi di cura. In altri termini, adottando una logica maschile nell’impostare in modo paritario le strutture sociali e professionali, si è ristretto notevolmente il margine per offrire alla società il contributo della ricchezza femminile. Non a caso, dopo anni di rivendicazioni femministe, oggi la donna si batte per recuperare il “diritto alla maternità” reclamando tempi e modalità di lavoro che lo rendano realmente possibile e che non siano modellati su esigenze da single.     

Come mettere a frutto il “genio femminile” senza mortificarlo, ma anche senza deformarlo? Forse la strada da percorrere è essere “semplicemente” donna. Proporre una dignità femminile che non sia affermazione di sé, ma cura di sé. Saper accogliere come compito quell’ “affidamento dell’uomo” e dell’umano che è la vera sostanza della sua vocazione e la radice della sua forza morale[38].

Maria Teresa Russo, Università Roma Tre

mariateresa.russo@uniroma3.it


[1] Cfr. C. A. ANDERSON, The John Paul II Generation, in “Anthropotes”, 2 (2006), p. 177.

[2] Cfr. S. ACQUAVIVA, L’eclissi del sacro nella civiltà industriale. Dissacrazione e secolarizzazione nella società industriale e postindustriale, Comunità, Milano 1981.

[3] Cfr. S. MARTELLI, La religione nella società postmoderna. Tra secolarizzazione e de-secolarizzazione, Dehoniane, Bologna 1990; S. ACQUAVIVA – R. STELLA, Fine di una ideologia: la secolarizzazione, Borla, Roma 1989.

[4] Cfr. V. CASTRONOVO, Un polacco a Roma, un terremoto all’Est, in “Il Sole-24 Ore”, 2/4/2005, p. 5.

[5] Cfr. S. CARRUBBA, La dignità dell’uomo è al centro di tutto, in Ivi, p. 6.

[6] Cfr. V. MESSORI, Varcare la soglia della speranza, Mondadori, Milano 1994, p. 5.

[7] Cfr. C. RUINI, Giovanni Paolo II. L’unità profonda di un pontificato realmente universale, discorso per il conferimento della laurea honoris causa all’Università cattolica di Lublino, 16 ottobre 2002.

[8] Si veda, ad esempio: M. A. MACCIOCCHI, Le donne secondo Wojtyla. Ventinove chiavi di lettura della Mulieris Dignitatem, Mondadori, Milano 1992. 

[9] G. WEIGEL, Testimone della speranza. La vita di Giovanni Paolo II, protagonista del secolo, Mondadori, Milano 1999, p. 1070.

[10] Cfr. L. CICCONE, Uomo-donna. L’amore umano nel piano divino. La grande catechesi del mercoledì di Giovanni Paolo II, Elle Di Ci, Torino 1986, p. 5.

[11] Cfr. R. BUTTIGLIONE, Il pensiero dell’uomo che divenne Giovanni Paolo II, Mondadori, Milano 1998. Cfr. anche A. MALO, L’antropologia di K. Wojtyla come sintesi del pensiero classico e della modernità, in “Acta Philosophica” , n. 15 (2006), pp. 14-16.

[12] Cfr. GIOVANNI PAOLO II; Udienza, 2. 1. 1980, in Uomo e donna lo creò, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2001, p. 72.

[13] GIOVANNI PAOLO II, Udienza, 23.4. 1980, in Ivi, p. 118.

[14] Ibidem.

[15] Cfr. C. CAFFARRA; Introduzione generale, in GIOVANNI PAOLO II; Uomo e donna lo creò, cit., pp. 12-13.

[16] G. WEIGEL, op. cit., p. 1077.

[17] Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Uomo e donna lo creò, cit., p. 139. Con il termine “coscienza”, s’intende qui “autocoscienza”, ossia quel porsi del soggetto in relazione con se stesso, che lo conduce a divenire consapevole di quattro elementi: la diversità, la solitudine, la comunione con l’altro, la dipendenza da Dio (cfr. M. SERRETTI, Indice dei concetti principali, in Ivi, pp. 505-506).

[18] Ivi, p. 70

[19] “Una morale viva, nel senso esistenziale, non viene formata soltanto dalle norme che investono la forma dei comandamenti, dei precetti e dei divieti […]. La morale in cui si realizza il senso stesso dell’esser uomo ” (Ivi, p. 114).

[20] GIOVANNI PAOLO II, Udienza del 15. 4. 1981, in Uomo e donna lo creò, cit., p. 239.

[21] Si tratta delle udienze del 15, 22, 29 aprile e 6 maggio 1981.

[22] Ivi, p. 240.

[23] Cfr. G. WEIGEL, op. cit., p. 1077.

[24] “Corriere della Sera”, 30/9/1988, p. 8.

[25] M. A. MACCIOCCHI, Mi disse: credo nel genio delle donne, in “Corriere della Sera”, 2/4/ 2005, p. 4.

[26] G. WEIGEL, op. cit., p. 1077.

[27] Lettera apostolica Mulieris Dignitatem, 15 agosto 1988, n. 6.

[28] Ivi, n. 7.

[29] Ivi, n. 10.

[30] Ivi, n. 30. Cfr. anche Lettera alle donne, 29 giugno 1995, nn. 9-10.

[31] Lettera apostolica Mulieris Dignitatem, n. 30.

[32]M. BRANCATISANO, Fondamenti per un’antropologia della femminilità, in Prendere il largo con Cristo. Esortazioni e lettere di Giovanni Paolo II, Cantagalli, Siena 2005, p. 267.

[33] Basti pensare, pur nella diversità di intenti e di toni, agli interventi più recenti di Julia Kristeva, Luce Irigaray, Elisabeth Badinter, Anna Bravo.

[34] Lettera citata da G. WEIGEL, op. cit., p. 128.

[35] K. Wojtyla, Kazania 1962-1978, Znak, Krakóv, 1983, p. 119. Citato da B. Taborski, Introduzione a K. Wojtyla, Opere letterarie. Poesie e drammi, Lev, Città del Vaticano, 1993, p. 29.

[36] Cfr. Karol Wojtyla, Veronica, in Opere letterarie, cit., p. 110.

[37] Giovanni Paolo II, Via Crucis, Sesta Stazione, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000, p. 30.

[38] Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Mulieris Dignitatem, n. 30.

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